CAPORALATO E FOOD DELIVERY: L’INTERVENTO DEL TRIBUNALE DI MILANO

Il termine “Caporalato” nel linguaggio comune rappresenta una forma illecita di reclutamento della manodopera; il Caporale è letteralmente colui che ingaggia operai o braccianti agricoli al fine di impiegare gli stessi nei lavori agricoli oppure nei cantieri edilizi, in condizioni di precarietà e senza alcuna forma di tutela o controllo. Il reclutamento spesso si rivolge agli immigrati clandestini i quali, nella speranza di migliorare le proprie condizioni di vita, si ritrovano invece ad alimentare e subire nuove e inaccettabili forme di schiavitù, soggiogati da “padroni” che impongono ritmi e condizioni di lavoro insostenibili, senza che venga garantita la benché minima tutela dei diritti che dovrebbero inderogabilmente essere riconosciuti a tutti i lavoratori.
Fino ad oggi il concetto di caporalato, è stato relegato all’ambito del lavoro agricolo o di cantiere, ma l’indagine portata a termine dalla Procura di Milano ha invero contribuito all’emersione di un analogo scenario che coinvolge la categoria dei c.d. riders, categoria pur presente da diversi anni ma ascesa alla ribalta delle cronache in occasione del lockdown.
L’azione della magistratura si è concentrata in particolare sulle condizioni di lavoro dei ciclofattorini che operavano con Uber Drive; ciò che emerso è un ricorso sistematico da parte del colosso olandese del food delivery a un sistema di sfruttamento e vessazione dei riders, quasi totalmente migranti richiedenti asilo e dimoranti nei centri di accoglienza. E’ proprio la maggior vulnerabilità dei lavoratori reclutati a indurre gli stessi ad accettare condizioni lavorative particolarmente critiche e sfavorevoli. Uber Drive, infatti, stando a quanto sostenuto dalla Procura di Milano, ha consapevolmente sfruttato le disagiate condizioni dei candidati per imporre un regime di “sopraffazione retributiva e trattamentale” fondato su paghe irrisorie (3 euro netti l’ora), sottrazione illecita delle mance, mancato pagamento delle ritenute, oltre a “un numero di corse non compatibili con una tutela minima delle condizioni fisiche del lavoratore”. Ad esito di quanto emerso l’ipotesi di reato avanzata dalla Procura non poteva che essere l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro espresso dall’art. 603bis comma 3 del Codice Penale, i cui requisiti sembrano essere pienamente integrati.
Vale la pena di sottolineare, peraltro, che nonostante le condizioni sociali in cui alcuni di questi riders vivono, un passo decisivo nelle indagini è stato mosso proprio grazie alle deposizioni dei fattorini stessi i quali, raccontando le proprie storie di abusi e soprusi, hanno riportato anche le parole e le chat whatsapp, talvolta agghiaccianti, che intrattenevano con i propri datori: “ti rompo la testa e lo ribadisco (…) ti vengo a prendere a sberle”, “da noi non lavorerai più, perché ho bloccato il tuo account”.
L’ingente mole di prove e documenti forniti dalla Procura hanno indotto il Collegio giudicante ad emanare un provvedimento che, ad oggi, rappresenta un unicum nel settore di riferimento. Ai sensi dell’art. 34 del c.d. Codice Antimafia il Tribunale ha disposto l’amministrazione giudiziaria nei confronti della società Uber Italy s.r.l, indicando nella figura del Dott. Cesare Meroni il soggetto che sarà incaricato di relazionare in ordine all’assetto societario, in particolare ai rapporti tra le società appartenenti al gruppo UBER nel settore di intervento della misura (rapporto con lavoratori autonomi c.d. riders), oltre che alla disamina delle iniziative che la società vorrà porre in essere, garantendo la propria costante presenza nelle riunioni tra manager e dirigenti nonché nei rapporti con gli amministratori.
Il provvedimento in esame rientra nelle misure preventive che, sulla base di indizi gravi e concordanti, l’autorità giudiziaria è autorizzata ad assumere, fermo restando che si dovrà attendere tutto l’iter giudiziario per arrivare ad una condanna o ad un’assoluzione; tuttavia l’esigenza di intervenire già in questa fase preliminare si pone la finalità di verificare l’andamento
nella società e la disposizione di quest’ultima ad assumere provvedimenti atti a prevenire episodi come quelli accertati in fase di indagine ed evitare così che il fenomeno del caporalato, anche digitale, possa radicarsi definitivamente nel mondo delle consegne a domicilio, particolarmente soggetto a questo tipo di abusi.
L’auspicio generale è che la risonanza mediatica del caso possa favorire un maggior controllo, oltre che fungere da deterrente nei confronti delle società di food delivery che operano nel medesimo settore, e “spingere” il legislatore a regolamentare una materia tanto ampia e diffusa da non poter essere più ignorata.